Paysage D’Hiver – “Das Tor” (2013)

Artist: Paysage D’Hiver
Title: Das Tor
Label: Kunsthall Produktionen
Year: 2013
Genre: Ambient/Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Offenbarung”
2. “Macht Des Schicksals”
3. “Ewig Leuchten Die Sterne”
4. “Schluessel”

“This sort of thing has cropped up before, and it has always been due to human error.”

Davanti ad una cornice di abeti innevati che come una legione s’inerpica verso i margini di una rigorosissima composizione, meticolosa come solo il disegno naturale sa essere, un’altissima e massiccia porta si apre: dal suo interno proviene una tale e così severa nerezza da sembrare addirittura una maestosa torre in controluce, piuttosto che un annichilente portale che tutto assorbe. La sua forma mandorlata ricorda da vicino le crisalidi votive medievali che nascondevano timide madonne lignee dall’espressione dolente; un’eco lontana nel tempo di una consapevolezza disposta a non morire mai e fissa sulla perfetta equazione tra epifania e dolore.

Il logo della band

Il contrasto tra queste forme, tra linee e colori di una copertina come quella di “Das Tor” appare del resto semplicemente perfetto nell’esprimere il magnetismo che tiene ben salde le componenti visive, filosofiche e musicali di un disco il quale, nel ricorrere del decennale dalla sua prima uscita, non può che ridestare all’ascolto tutta la sua ipnotica forza attrattiva. “Das Tor” è infatti e indubbiamente un disco difficile: forse davvero il più difficile disco firmato Paysage D’Hiver, ma è probabilmente anche il più completo, il più raffinato e il più esemplificativo di quello che potrebbe essere considerato il primo paradigma che segna la produzione solistica di Wintherr – e non casualmente, per molti, risulta paradossalmente anche il più accessibile.
Dallo scadere degli anni Novanta all’uscita di “Winterkälte” -incluso- una serie di ben sette lavori scandisce lo scorrere del tempo senza alcuna interruzione di sorta; nel 2003, a soli due dall’uscita appunto del compiutissimo “Winterkälte”, quasi un manifesto estetico preso in sé, esce il primo movimento intitolato “Schnee” nel vinile condiviso con i Vinterriket seguito, nell’anno successivo, dallo split con i Lunar Aurora e dall’Ambient nel cuore tetro di “Nacht” – così diverso da quello del “Die Festung” nell’involontaria trilogia del 1998. Dopo una inedita pausa di tre anni viene non casualmente pubblicato “Einsamkeit”, l’effettivo secondo disco in cui la totale rarefazione allontanatasi dai mezzi del Black Metal è primattrice; poi il vuoto. Una pausa incolmabile, lunghissima e inaspettata: altri ben sei anni di ulteriore silenzio che vanno intrecciati alle parallele uscite dei Darkspace, tutte nate oltre il 2002. La scelta di Wintherr di accantonare il proprio progetto solista per dedicarsi quasi totalmente all’attività con l’altra band di musicisti affini va inoltre letta alla luce della pubblicazione, ormai ad intermittenza, di quei cosiddetti demo che sono per l’appunto o precipuamente Ambient (si pensi non soltanto all’album omaggiante la solitudine, ma anche a tutto il minimalismo sintetico raggiunto in quello dedicato alla notte) oppure pubblicazioni di precedente materiale unreleased in congiunzione con i commilitoni poc’anzi nominati; una decisione, questa, che rileva un forte tentativo di ricerca di un proprio linguaggio, del ricalcolo quasi del proprio modo di fare musica che possa essere identificato sia come profondamente individuale ma anche, e allo stesso tempo, come frutto di una contestualizzazione in altri progetti e in relazione ad altri soggetti.

Wintherr

La prima metà degli anni Dieci di questo nuovo millennio sancisce dunque e in maniera evidente la volontà di elaborare dei veri e propri manifesti, di trarre finalmente i frutti da quelle che a tutti gli effetti e in retrospettiva possono essere oggi ritenute prove generali e di tracciare così una nuova strada che porti alla verità: alla rivelazione del proprio essere, all’epifania di un alfabeto che non intende più evolversi in quanto pronto, collaudato e assolutamente perfetto nelle sue pure differenti esplorazioni successive. Non è un caso che nel 2008, in un’altra dimensione, esca quindi uno dei dischi più complessi e completi del trio svizzero, il monumentale “Darkspace III”, e che poi soltanto nel 2014 venga pubblicato l’attualmente ultimo “Darkspace III I”; ma raggiungere un punto fermo significa spesso chiudere un capitolo, realizzare di aver sfiorato il monolite e di aver in quel momento terminato la propria odissea. E così “Das Tor”, proprio nel suo intento quasi paradigmatico, pone fine a quell’esplorazione del vuoto atemporale che tanto accomuna il deserto antartico alla freddezza spietata delle galassie. L’assenza di vita e la violenza di una natura divenuta monocromatica nel freddo, che sembra tutt’altro che terrestre, rende nello spartiacque del 2013 ancora più saldo il rapporto con l’indagine degli evolutivamente gemellari Darkspace e fa pertanto compiere a “Das Tor” un passo in più rispetto a qualunque precedente uscita e prova. Si tratta di un salto che va evidentemente osservato a posteriori, tendendo peraltro l’orecchio anche verso le uscite più recenti dell’egida Paysage D’Hiver: il gelo ha ormai bloccato tutto, nel tempo come nello spazio, calando il suo freddo manto incolore su distese che non riescono nemmeno più a conservare le vestigia del passaggio di qualche creatura. L’uomo in questa musica non esiste più, se mai è esistito, anche se l’esplorazione di un eterno inverno può evidentemente partire solamente da un cuore assiderato; ma ciò che cambierà con “Im Wald” -a “Das Tor” di ben sette altri anni posteriore- è la presenza di una traccia, di un solco appena percettibile ma che ricorda uno spietato passaggio naturale tutto terrestre, e che in “Geister” si perde nelle smorfie terroristiche di alcuni mostri ibridi che ricordano da vicino la tramortente violenza che è tutta antropomorfa, benché profondamente inumana.
In “Das Tor” molti elementi che rimarcano questo riavvicinamento all’agonia del principe del creato nei capitoli estemporanei che saranno manifestazioni aurali del 2020 e del 2021 vengono anticipati con effettiva chiaroveggenza – un altro indicatore di un pensiero che non ha mai smesso veramente di autoalimentarsi, ma che semplicemente cercava prima del 2013 il perfetto allineamento dei propri elementi costituenti. Sussurri e sospiri serpeggiano ad esempio per la prima volta con una tale importanza tra le fessure di un muro di suono compattissimo, di quel portale nero i cui elementi portanti suonano tuttavia esattamente come sempre. Se la prima parte della discografia Paysage D’Hiver è segnata però da una voluta assenza di interazione tra strumenti e voce in un unicum appiattito, indistinguibile e totalmente coprente, in “Das Tor” l’approccio di Wintherr appare modulare: la produzione delle chitarre è nitidamente più pulita e memore anche dei toni implementati nel parallelo progetto trino; l’uso di campionamenti che simulano tormente di neve cade in maniera molto più calibrata all’interno delle cornici musicali e non si limita a costruire semplici interludi o code sparse tra una track e l’altra; la batteria e persino il basso suonano all’unisono come un insieme confuso ma creano al contempo quel perfetto tono nebbioso che ritrae una tempesta di neve e che rende ciò che suona più limpido ancor più nitido, come un lago ghiacciato avvolto dalle brume più algide.
Un’attenzione ai dettagli molto più accurata rispetto alle prime uscite, quindi, e volta ad accentuare adeguatamente ogni singolo strumento e schema vocale per creare un’immagine chiara di un paesaggio innevato dove solo l’incombere improvviso di una porta nera, alta, immensa e grande come una torre, sembra poter salvare dal peso opprimente di un vuoto pesante, bianco e freddo come invece quello della compagna e nemica neve. Non a torto Wintherr parla quindi di Rivelazione -nella traduzione letterale del titolo del primo brano del disco, tra il resto-, perché proprio di un’epifania sul proprio linguaggio, sul lavoro svolto fino ad allora siamo al cospetto; e il regalo è in fondo la chiave –“Schüssel” è l’ultimo brano, quello di commiato e liberazione- che apre la porta, che apre il passaggio dal cui nero filtra luce e che dà su un’altra dimensione, la quale a sua volta dona il La ad un’altra epoca, ad un’altra sfera di coscienza dell’ormai familiare viaggiatore.

In “Das Tor”, colui che all’anagrafe risponde al nome di Tobias Möckl ha quindi cercato di creare un’esperienza visiva che trascendesse quelli che fino a quell’anno 2013 erano stati se vogliamo i limiti del suo linguaggio e potesse penetrare direttamente nel subconscio con tutta la carica emotiva e filosofica accumulata in nove prove precedenti. Un cammino osteggiato da una forza impenetrabile e pesantissima ma che porta inevitabilmente alla presa di coscienza di aver raggiunto a quel punto una inevitabile conclusione, di detenere finalmente le chiavi d’accesso ad una verità recondita ma che è in quanto tale sempre vera e lo sarà per sempre; ad un destino il cui potere è assolutamente insormontabile a meno che non sia esso stesso a concederti la possibilità di lasciarti affiorare in superficie a prendere fiato. Quasi un’ora e venti di disco che non ha più la ieratica lentezza dei primi lavori, ma che si infittisce sempre di più come quando ci si avvicina al punto d’origine di una tempesta salendo le montagne e toccando il cielo, che avvolge con mortifero candore il collo dell’ascoltatore serrando sempre più la presa. I tempi morti in un silenzio densissimo fatto solo di rumore, i lunghi non detti sussurrati tra le pochissime battute puramente informative, pronunciate con tono gelido e pause sterminate, lo svolgersi dell’azione in senso tradizionale quasi inesistente e ridotto alla follia di un incipit violento e del tutto inaspettato che travolge ab ovo la conclusione quasi afona, la totale assenza di espressioni sentimentali, la precisione assoluta nella costruzione dei rapporti tra le singole componenti strumentali, la cura meticolosa nella descrizione dei minimi dettagli dell’assenza di vita e del raggiungimento della verità: se non è questo ciò che manifesta compattezza di volontà…

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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